Istruire o… costruire? Tinkering, costruttivismo e costruzionismo

Riflessioni di Alessandra Serra (Equipe Formativa Territoriale Emilia-Romagna/Servizio Marconi TSI) 

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Alessandra Serra – Istruire o costruire
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Fornire un’adeguata preparazione scolastica ed umana ai più giovani è sempre qualcosa di complesso e mai definito una volta per tutte. Questo periodo particolarmente difficile (anche) per l’educazione e l’istruzione, poi, ci pone di fronte ad interrogativi sempre più assillanti: in che modo trasmettere qualcosa a bambini e ragazzi? Come dare loro gli strumenti adatti per comprendere il mondo complicato che li circonda? Sicuramente, la chiave per arrivare ai più piccoli è il coinvolgimento: più si partecipa a ciò che ci viene proposto, più l’attività viene interiorizzata, diventando un nostro possesso permanente.

È chiaro, dunque, che per imparare bisogna fare. Anzi, bisogna armeggiare.

“Armeggiare” è la traduzione italiana più vicina all’inglese tinkering, ma non esprime al meglio il concetto sotteso alla parola. Un tinkerer, nel senso pedagogico del termine, è un individuo di qualsiasi età che fa esperienze pratiche con i materiali che ha a disposizione per comprenderli al meglio e per imparare a superare gli ostacoli in cui si imbatte, sviluppando attivamente nuove competenze. Il tinkering è uno specifico indirizzo pedagogico, ma è anche una disposizione con cui si affrontano problemi e progetti, che non si esaurisce in una razionale analisi o pianificazione, ma mette al centro la componente giocosa ed esplorativa. Questa tecnica di educazione informale è stata resa nota quasi dieci anni fa, nel 2012, da Karen Wilkinson e Mike Petrich che, con il loro gruppo, hanno erogato il primo corso online sull’argomento. Il carattere tendenzialmente scientifico di tali corsi e dei laboratori che ne sono derivati ha contribuito, però, a diffondere l’idea errata che il tinkering sia applicabile solo all’apprendimento in STEM. In verità, il tinkering è la capacità di utilizzare il ragionamento logico, ma affiancato ad una piena e creativa espressione di sé, e si può applicare a qualsiasi disciplina così come può riguardare qualsiasi tipo di attività; non è da considerarsi (come vuole, invece, un vecchio luogo comune impiegato dai detrattori del tinkering) una rinnegazione dell’astrazione, ma una sintesi tra quest’ultima, appunto, e la concretezza di oggetti con cui relazionarsi. Anzi, proprio tramite la concretezza, il tinkering mira ad agevolare i bambini nella formulazione di concetti anche molto elaborati. Lo scopo del tinkering, infatti, è insegnare a pensare, sì, ma mentre si costruisce qualcosa di concreto con le mani, “organi dell’intelligenza”. In pratica, allora, qual è la differenza tra il tinkering e i metodi ‘tradizionali’ di apprendimento? La differenza sta nel tipo di approccio, che per il tinkering è costruzionista (anziché istruzionista).

Ma che cos’è il costruzionismo?

Il termine è indissolubilmente legato al suo principale esponente, Seymour Papert, attivo nella seconda metà del secolo scorso. Come collaboratore di Jean Piaget, a sua volta considerato il fondatore dell’epistemologia genetica, ha lavorato dal 1958 al 1963 presso l’istituto di epistemologia genetica di Ginevra, e dal 1964 è stato ricercatore al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, dove ha fondato, insieme a Marvin Minsky, il Laboratorio di Intelligenza Artificiale. Nello specifico, il costruzionismo, come il costruttivismo (connesso alla figura del mentore di Papert, Jean Piaget, appunto), si fonda sull’idea di un uomo che, attivamente, costruisce (di qui, i nomi delle due teorie) strutture di conoscenza, ma, rispetto al costruttivismo, introduce il principio secondo cui tale lavoro di costruzione risulta più efficace in un contesto dove il soggetto che apprende si cimenti anche praticamente nella costruzione di qualcosa. Per quest’idea di costruzione, costruttivismo e costruzionismo si oppongono alla mera trasmissione di conoscenze, che va sotto il nome di istruzionismo. Papert riprende anche un altro caposaldo dell’epistemologia di Piaget, ampliando il suo significato: il concetto di pensiero concreto, che, per Papert, viene a rappresentare la particolare forma di costruzione fisico-mentale al centro della teoria costruzionista. Se, per Piaget, il pensiero concreto era solo uno stadio intermedio, un mezzo per arrivare al fine cognitivo, per Papert questo concetto è il protagonista dell’apprendimento stesso.

In che cosa consiste, dunque, il pensiero concreto? Esso si fonda su tre principi: quello della continuità (con le esperienze e conoscenze pregresse del bambino), quello della potenza (nel realizzare progetti personali fortemente significativi), e quello della risonanza culturale delle conoscenze da acquisire.

Un concetto che il costruzionismo, invece, introduce ex novo, è quello di artefatti cognitivi, che sono costituiti dagli oggetti, dai materiali e dai dispositivi che possono fungere da vettore di apprendimento e che, in pratica, servono per costruire le conoscenze e le competenze del bambino. Questi materiali vengono raggruppati e classificati come “set di costruzione”. Se ne ricava un’importante (e spaventosa, per gli istruzionisti!) deduzione: se bambini e studenti apprendono lentamente, tale lentezza e difficoltà non è dovuta propriamente alla complessità delle informazioni da assimilare, ma all’insufficienza e all’inadeguatezza dei materiali proposti come supporto per l’apprendimento. Quindi, se i mezzi forniti al discente non sono in grado di avvicinare le nozioni alla sfera di conoscenza e di esperienza del soggetto, l’informazione sarà percepita come estranea; pertanto, risulterà troppo complessa da comprendere e, di conseguenza, da apprendere. Chiaramente, questa impostazione pedagogica è incompatibile con una didattica fondata sull’ ‘imparare per usare’, la quale, piuttosto che un’effettiva interiorizzazione dei concetti, privilegia un insegnamento cattedratico, basato (ma, spesso, anche finalizzato!) sulla mera trasmissione e ricezione di nozioni astratte che, nella migliore delle ipotesi, vengono solo in seguito applicate ed utilizzate a scopi produttivi. Il costruzionismo, al contrario, si fa portavoce di una didattica fondata sull’ ‘usare per imparare’, dove si impiega un tipo di apprendimento attivo a scapito dell’insegnamento vero e proprio, e dove è la pratica a generare conoscenze che, in quanto conquistate e non somministrate, resteranno salde nel discente.

Un esempio: nel 1963, in contrapposizione alle applicazioni CAI, di stampo comportamentista, Papert realizza il LOGO, un linguaggio e un ambiente di programmazione appositamente sviluppato per i bambini; successivamente, estende il modello delle costruzioni LEGO ad un set di robotica: il suo scopo è quello di offrire ai bambini degli strumenti per concretizzare il loro pensiero anche nel campo dell’intelligenza artificiale. Così, è il bambino che programma il computer e non viceversa.

È chiaro che il problema è di grande attualità ed urgenza!

Tuttavia, non bisogna credere che il costruzionismo muova una guerra al metodo di apprendimento tradizionale: l’insegnamento è accolto nella misura in cui si limita ad essere un supporto minimo, che interviene solo laddove sia indispensabile. Non bisogna nemmeno pensare che, soltanto perché il costruzionismo si appoggia con entusiasmo alle nuove tecnologie, questo significhi che le discipline umanistiche siano svalutate o trascurate: al contrario, Papert, tramite i suoi esperimenti, cerca proprio di pervenire ad una sintesi tra i due rami del sapere.

Un altro aspetto su cui la pedagogia costruzionista si focalizza è quello della ricerca e della soluzione del problema (problem finding e problem solving): è importante, infatti, riuscire ad individuare le difficoltà che si presentano mentre si costruisce, in modo tale da riuscire, poi, a superarle. Questo implica che il costruzionismo sia una ‘pedagogia dell’errore’, dove il termine errore è pregno di un’accezione del tutto positiva: sbagliare, infatti, è l’unico mezzo che il discente ha per comprendere come proseguire la sua opera e portarla a termine. L’errore, dunque, non rappresenta un punto di non ritorno o un momento di stallo nel processo di apprendimento, ma, al contrario, è l’unico motore di evoluzione, che consente di regolare il proprio atteggiamento (e, più concretamente, le proprie azioni) sulla base di continui riscontri. La pedagogia dell’errore, dunque, è il modo più rapido e concreto che il bambino ha per apprendere, perché si confronta ininterrottamente con il risultato del proprio lavoro, imparando spontaneamente i passaggi necessari per migliorare, rimediare o anche solo continuare.

È sul solco del costruzionismo di Papert che si muove, oggi, Mitchel Resnick, il quale, insieme ai ricercatori del gruppo Lifelong Kindergarten, ha individuato i quattro elementi indispensabili per un apprendimento creativo; essi sono facilmente memorizzabili come le quattro P, dalla lettera iniziale delle parole-chiave che li designano.

Il primo elemento è costituito dai progetti: infatti, la loro realizzazione coinvolge intensamente i bambini e facilita l’apprendimento di questi, perché sottopone loro problemi reali e tangibili.

Il secondo elemento necessario all’apprendimento creativo è sicuramente la passione: se i bambini si interessano a ciò che fanno, mantengono più a lungo e più efficientemente la concentrazione, affrontando con entusiasmo e coraggio le sfide.

La terza parola-chiave è pari, perché i bambini, se l’apprendimento avviene in un contesto di socializzazione tra coetanei, imparano in modo più responsabile e, oltre ad acquisire concetti in modo semplice e spontaneo, rafforzano le proprie capacità di collaborazione, condivisione e autocritica; inoltre, capiscono come assorbire idee dagli altri in modo corretto, come aiutare e farsi aiutare, come costruirsi un’opinione sugli altri, sui loro prodotti e sui propri.

La quarta idea (play), in verità, se la traduciamo con l’italiano gioco, non mantiene la P iniziale, ma il suo significato resta inalterato: l’apprendimento creativo si basa sulla sperimentazione giocosa. Quando, banalmente, ci piace ciò che facciamo, siamo maggiormente disposti a valutare ed approfondire nuove idee, a metterci alla prova e a superare i nostri limiti, ripetendo più volentieri le attività e i possibili errori che esse portano con sé.

Queste quattro P ci dimostrano, quindi, che gioco e sperimentazione sono il fulcro del processo di tinkering. Ma che cosa significa, nello specifico, gioco? Nel linguaggio comune, la parola viene associata all’idea di divertimento e svago; nel contesto pedagogico dell’apprendimento creativo, invece, si riferisce più propriamente ad una mentalità piuttosto che ad una specifica tipologia di attività. Gioco è un atteggiamento attivo, è la volontà di impegnarsi e un’attitudine alla curiosità, alla sperimentazione di idee e materiali diversi, senza la paura di sbagliare; infatti, secondo Papert, “the one really competitive skill is the skill of being able to learn”.

Giocare, tuttavia, non significa fare qualcosa di facile: Papert introduce, infatti, il concetto di “hard fun”, il quale ben esprime come l’attività ludica debba richiedere energie e sforzi che, però, non sono avvertiti come tali. Infatti, il bambino si concentra maggiormente, pur avvertendo di meno la fatica, se si cimenta in attività stimolanti, piuttosto che in compiti ripetitivi e scontati. Attraverso il gioco, è il bambino ad acquisire da sé le conoscenze necessarie per portare a termine il proprio lavoro: tinkering, dunque, significa riuscire a convertire una fase iniziale di esplorazione libera e giocosa in un’attività finalizzata al conseguimento di un obiettivo. Questo ci porta ad affermare che il processo di apprendimento avviene dal basso verso l’alto (bottom-up), partendo cioè dalla sperimentazione concreta e condotta in prima persona.

Ma perché è tanto importante, oggi, parlare di tinkering? Perché è una tecnica educativa che consente di sviluppare al meglio competenze quanto mai necessarie nel mondo odierno: pensiero critico, apertura verso l’innovazione, solido metodo per studiare ed agire, attitudine all’apprendimento permanente (lifelong learning), abilità interculturali, analitiche, comunicative. 

Qual è, allora il ruolo dell’insegnante? Tale figura non è, come si potrebbe pensare, marginale: è vero che il bambino è l’unico protagonista del tinkering, ma è anche vero che l’insegnante è fondamentale tanto per proporre attività e materiali, quanto per stimolare intellettualmente il bambino. L’insegnante è chi si pone nella “zona di sviluppo prossimale” al bambino per aiutarlo a porsi domande e a costruirsi le risposte, e predispone ambienti di apprendimento vicini alla realtà naturale del discente, in modo tale che l’alunno percepisca le proprie competenze e sviluppi una mente dinamica. Questa graduale costruzione di conoscenze porterà il bambino a raggiungere un’adeguata comprensione della realtà, che avviene anche grazie al processo di iterazione. Quest’ultimo è iconograficamente rappresentabile con una spirale e si compone di cinque fasi (immagina, crea, gioca, condividi e rifletti) che, ovviamente, come dice il nome del processo, si devono poi ripetere, includendo errori di percorso che, lungi dall’essere problematici, sono occasioni di crescita. Il tinkering, dunque, poiché non condanna gli errori e non richiede prerequisiti specifici per essere intrapreso, è un metodo didattico molto inclusivo: ogni bambino lavora secondo le proprie capacità, senza che ci siano risposte giuste o sbagliate, ma solo opportunità di miglioramento. I progressi, a loro volta, sono valutati dal bambino stesso, non da una scala di giudizio esterna che non tiene conto della personalità individuale, e questo consente ad ogni alunno di avanzare nell’acquisizione di conoscenze e competenze, tra cui quella di elaborare la frustrazione causata da fallimenti o incertezze. Inoltre, non esiste uno scopo preciso o un punto di arrivo definito nell’attività del tinkering; questo rende il processo più difficile, ma anche più stimolante per il bambino, che deve anche essere in grado di capire da solo quando il suo lavoro è giunto a compimento. Spesso, i bambini arrivano allo stesso risultato e allo stesso concetto percorrendo strade diverse, ma capita anche che le loro scelte ed azioni li portino ad imparare cose diverse e a prodotti differenti tra loro, senza che l’uno o l’altro punto di arrivo sia migliore. È dunque il tragitto ad essere oggetto di attenzione (e non la meta!), con tutti i suoi momenti di esplorazione e sperimentazione, perché questo è il modo in cui l’individuo comprende strumenti e concetti.

Papert lo chiama principio di potenza e a questo proposito asserisce: “cosa viene prima, usare o ottenere? Il modo naturale di acquisire la maggior parte della conoscenza è attraverso l’uso, che porta a una comprensione progressivamente più profonda. Solo nella scuola […] questo ordine è sistematicamente invertito. Il principio di potenza re-inverte l’inversione”. Nel tinkering, dunque, l’usare le idee viene prima del capirle e, di conseguenza, dell’ottenerle. Il docente, quindi, si dovrà proporre come un ‘facilitatore’, mentre l’ ‘utilizzatore’ sarà sempre il bambino. In che modo si può ricoprire correttamente questo ruolo? Creando opportunità di riflessione, ponendo domande specifiche al momento opportuno, osservando cosa fanno gli alunni. Tuttavia, ogni insegnante ha il dovere di cercare sempre nuove e personalissime modalità per stimolare la riflessione e l’attività dei propri bambini. È molto importante anche sollecitare e aiutare gli studenti a verbalizzare ciò che hanno provato, analizzando sempre il perché delle diverse emozioni: il tinkering è un vero e proprio viaggio cognitivo, ma anche emotivo. È normale che il bambino provi grande gioia e soddisfazione quando raggiunge i suoi obiettivi ed è normale che espliciti questi sentimenti spontaneamente; il compito dell’insegnante, oltre a quello di assicurarsi che il suo alunno condivida le emozioni positive, è anche quello di aiutarlo a manifestare la sensazione di delusione, che è naturalmente conseguente ad un piccolo fallimento o all’infrangersi di una previsione. L’aspetto emotivo è centrale: frustrazione, gioia, delusione e orgoglio sono sentimenti che indicano che i bambini sono davvero coinvolti nella loro attività ludico-didattica. Papert esemplifica molto bene questo concetto, quando dice che “l’apprendimento è più legato all’amore che alla logica”: soltanto un individuo che prova emozioni, anche contrastanti, sta apprendendo, a scuola come nella vita. Inoltre, con questa frase, Papert dimostra anche che, come si diceva, il tinkering non trova applicazione soltanto in STEM, ma in ogni ambito per il quale il bambino provi interesse.

Ma allora… che cosa vuole dire imparare?

Lo scoglio da superare è l’idea che l’apprendimento avvenga solo quando qualcuno ci sta insegnando qualcosa. Per esperienza diretta, sappiamo tutti che ognuno di noi comincia ad imparare molto prima di andare a scuola, che impariamo anche fuori dall’edificio scolastico finché ancora lo frequentiamo e che non smettiamo nel momento in cui lo lasciamo. Imparare vuol dire lavorare e, nel caso del bambino, il lavoro coincide con il gioco, che non è mai fine a se stesso, ma è lo strumento con cui i bambini danno senso al mondo. I giochi di fantasia e di ruolo, infatti, non sono quasi mai molto distanti dalla realtà, ma sono la modalità con cui i bambini elaborano le proprie esperienze di vita. E bambole, peluche, macchinine, blocchi (o qualsiasi materiale si trovino davanti: fiori, foglie, matite…) sono i mezzi concreti con cui dare corpo alla loro personale realtà. Tale realtà può far parte del loro passato (e costituire, cioè, un’esperienza già vissuta), ma anche del loro futuro (rappresentando, quindi, una sorte di ipotesi): il gioco creativo infantile, infatti, spesso si struttura come un periodo ipotetico (“vediamo cosa succede se…”). Per esempio, quando un bambino getta oggetti dal seggiolone, lo fa per vedere come oggetti e persone si comportano: in questo modo, egli apprende come cadono gli oggetti, quali di essi vadano raccolti e quali no, quali si possano rimettere sul seggiolone e quali invece siano perduti per sempre, e per quali motivi. Quando un bambino cerca di smontare un orologio o una bambola, sta cercando di scoprirne il funzionamento. Il bambino può anche non avere alcuna idea di come assemblare di nuovo i pezzi rotti o smontati, può essere interessato alla ricostruzione oppure no: armeggiando, però, può arrivare a capire qualcosa di come funzionano gli oggetti della sua quotidianità. Questo è il tipo di gioco sperimentale che fa apprendere cose nuove. John Holt sostiene che il processo attraverso il quale i bambini trasformano l’esperienza in conoscenza è esattamente lo stesso, punto per punto, del processo attraverso cui quelli che noi chiamiamo scienziati costruiscono il sapere scientifico. Quindi, se tutti nasciamo scienziati, non dobbiamo insegnare ai bambini ad esserlo, ma soltanto permettere loro di fare ciò che sanno fare, rendendo il mondo accessibile e accogliente per i nostri alunni. Come? Mostrando il più possibile ai bambini il nostro lavoro, le nostre preoccupazioni, le nostre attività. I bambini sono naturalmente attratti da persone abili in quello che fanno e da chi svolge un lavoro impegnativo; i bambini cercano attività per cui valga la pena di applicarsi. Vogliono stare ad osservarle e spesso partecipano, per quanto possibile, al lavoro; ma esso deve essere reale e concreto per entusiasmarli, così come gli strumenti forniti devono esserlo. Il maestro, allora, deve offrire opportunità di lavoro che siano abbordabili e coinvolgenti al tempo stesso.

Come capire, però, se i bambini stanno imparando, e che cosa?

Sostanzialmente, non possiamo capirlo. La maggior parte dei bambini non è consapevole di ciò che sta imparando. Possiamo, però, osservare con molta attenzione ciò che i bambini stanno facendo e, solo da quello, cercare di prendere atto di ciò che stanno imparando (o hanno imparato). A volte, è vero, siamo in grado di porre domande o progettare esperimenti per cercare di capire qual è il modello mentale di un’altra persona e, cioè, qual è il significato che questa sta dando al mondo. Ma è anche vero che, talvolta, ciò che una persona impara da un’esperienza emerge a distanza di mesi o anni. Inoltre, nessuna esperienza è isolata, ma concatenata ad altre esperienze: comprendere il confine tra l’una e l’altra risulta molto difficile.

È chiaro, dunque, che una tale concezione dell’apprendimento implica l’aver fiducia nei bambini. E, spesso, per gli insegnanti questa è un’operazione difficile, ma soltanto perché a molti di loro non è stata data fiducia da bambini. Da qui deriva la nostra ansia di controllare che i bambini stiamo apprendendo, crescendo e capendo di star apprendendo e crescendo. Un’ansia legittima, certo, ma proviamo a vedere il bambino come una pianta: essa, una volta che è stata seminata in un terreno idoneo e che viene annaffiata costantemente, è perfettamente in grado di costruire, con i propri tempi, radici molto forti e indispensabili al suo sviluppo. Ma se qualcuno la sradica continuamente per ispezionarla e assicurarsi che le radici si stiano sviluppando, esse non si impossesseranno mai veramente del terreno, e la pianta appassirà. Così, se noi mettiamo in continuazione alla prova gli studenti e misuriamo ogni loro piccolo (supposto) progresso, il loro apprendimento sarà sempre insicuro e instabile. La nostra ansia e la nostra mancanza di fiducia nei loro confronti trasmetterà loro il messaggio debilitante che non devono fidarsi di se stessi e che i loro veri interessi, passioni e preoccupazioni non sono importanti. Se, invece, ci fidiamo dei bambini, saremo ricompensati con persone curiose, competenti e piene di risorse, che affrontano la vita con energia ed entusiasmo, e che non hanno paura di nuove sfide.

E in un’era sempre più robotizzata e meccanica, in una società-dottore che somministra modelli prefabbricati, in un mondo di spugne tanto intrise di sapone e poco capaci di detergere, è quanto mai necessario gridare con forza il valore dell’individualità, della scelta, della conquista: in una parola, dell’umanità.

Per avere bambini costruttori e non costruiti.
Per avere degli armeggiatori e non degli armeggiati.

 

Bibliografia

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Sitografia

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